Il romanzo perduto del Poppelmann

Qui si riportano stralci del romanzo mai pubblicato di E. G. Poppelmann. Detti frammenti sono stati ritrovati tra gli effetti personali che la direzione del carcere, in cui visse gran parte della propria vita, consegnò alla famiglia qualche anno dopo la sua prematura scomparsa. Si pensa che il titolo provvisorio fosse "Olsen", nome del protagonista delle vicende, oppure "Niente non è niente".

Zero.

Stette lì per un po’ a guardare i monitor che brillavano vuoti dalla vetrina.

Avevano detto che li avrebbero lasciati lì fino alla fine.

E così avevano fatto.

Ora era scomparso anche quel posto.

Anche io dissolvo, pensò Olsen. Mi si stacca un altro pezzo. Rimane sempre di meno.

Ma fate pure, andatevene tutti, non cambia un cazzo. Mormorò appannando la vetrina.

Mi sveglierò nel mio vomito di ubriaco, la faccia contro l’asfalto, il sapore di cemento, mi rialzerò col voltastomaco, bestemmiando e vaffanculo.

Non sarà diverso da un qualsiasi addio.

Bisbigliò Olsen, voltando appena il capo, per tornare poi a guardare il niente luminoso dei monitor.

Tirò un pugno alla vetrina. Vibrazioni, poi l’allarme.

Un qualunque cazzo di addio di merda.

Cinque

Olsen rimase almeno venti minuti di fronte a quel bar dei cinesi chiuso.

Ondeggiava, beveva a canna dall’ultima bottiglia di birra.

Non può essere chiuso, non può, pensò perdendo l’equilibrio e appoggiandosi alla saracinesca.

Ce n’erano tanti altri di bar dei cinesi in cui andava, ma era in quello che si ficcava di solito ogni giovedì, dopo le due birre dal kebabbaro.

Uno deve mangiarsi sempre la solita merda se cammina di notte andando da nessuna parte, è una porcodio di legge.

Pensò, prima di andarsene a cercare del wiskhy da qualche peruviano e vaffanculo.

Venti

Olsen si stancò di confidarsi con le amiche, gli amici, le vecchie fidanzate.

Era stanco di parlare sempre dei sentimenti, di come si sentiva, di come avrebbe dovuto sentirsi, di cosa fare e non fare, basta.

Basta.

Quando un uomo si spezza e crolla in frantumi, deve essere libero.

Di ammazzarsi di alcool, di parlare con gente mai vista prima, quelli come te, proprio come te, che vi annusate subito, state affogando nella stessa immondizia, che li incontri tra uno spartitraffico pieno di merda di cane e un camion, mostro nero cemento, lasciato in un parcheggio di notte e preservativi e vetri di bottiglia.

Di urlare. Da solo, o insieme a quei poveri coglioni come te, proprio come te.

Che le donne sono troie, ma tutte, che i calciatori invece, che mezzeseghe, si rompono subito, e gli arbitri froci, corrotti, solo perché non sanno giocare, e i politici, ah, i politici: ladri, ladri di merda tutti, ma tutti tutti, quelli di adesso, mica come quando ero giovane io che andavo a spaccare i crani ai fasci di merda.

Quando la vita ti incula a sangue, cazzo, una sana dose di becero maschilismo dovrebbe essere garantita dallo stato, concluse a labbra serrate Olsen.

Forse questo bisogno era genetico, pensò. Se la vita butta in merda, allora: alcol, donne tutte troie, calcio e politica.

Scosse il capo, si chiese come facessero gli uomini preistorici a farsela passare.

Ruttò birrra acida e si sentì decisamente meglio.

Uno

Olsen guardò giù.

Non vide niente. Era notte.

Barcollò sul bordo del cornicione e gli venne da ridere. Niente, non vedeva niente lì sotto, per strada. Niente. Una mamma con carrozzino, due coglioni innamorati, dei bambini col pallone, un cane, un gatto randagio, niente, cazzo, niente. Vivere e morire era la stessa cazzo di cosa.

Niente.

Poi gli venne ancora voglia di bere. Se tutto andava male come da progressione aritmetica, da morto non ci sarebbe stata manco una birra piccola sgasata dai cinesi all’angolo. Tornò indietro. Scavalcò la ringhiera del terrazzo, inciampò, cadde faccia a terra. Si rialzò, scesce le scale e andò giù.

Dai cinesi. All’angolo.

Ventisette

Olsen capì che non era vero che aveva urlato per ore da solo.
Pensava di averlo fatto, blaterando di quanto fosse una cazzata relativa a ogni stronzissimo punto di vista la faccenda che uno ci aveva o no i coglioni, con la mano tesa rivolta a un edificio grigio di almeno 14 piani pieno di finestre illuminate e di vite altrui vissute al caldo.
E invece no, aveva sbraitato in faccia ad Aziz, che ora stava vomitando furiosamente con una mano appoggiata al muro di cemento.
Lo capì perché anche il whisky che aveva in mano era di Aziz.
Lo scolò fino alla fine, ondeggiando appena sulle gambe.
“Ma tu guarda se uno non può straparlare a cazzo come un ubriaco del cazzo in santa pace, con ‘sti rompicoglioni del cazzo”, biascicò indicando Aziz con la bottiglia vuota.
Aziz rovesciò la quinta secchiata di vomito contro il muro.

Otto

Olsen quel giorno scopó e venne per due volte, nel giro di due ore.

Poi accompagnó a casa Lilium.

Tornò a casa sua fermandosi per due volte a bere nei bar dei cinesi e dei tunisini.

Poi vide un gruppo di donne che parlava e rideva. Ne ammirò le caviglie e i bei piedi nelle scarpe col tacco. Salì a casa e si fece una sega.

“Ce n’è per tutti, diocane.” mormoró prima di addormentarsi.

Quattordici

Olsen rimase sotto il sole freddo per ore.

Si sentiva come una squadra che a inizio campionato si pensava venisse retrocessa e invece era riuscita a salvarsi. Ma ora era in bancarotta.

I giocatori erano tutti vecchi, spompi, pugili suonati. Iniziare un altro campionato così? Solo per i tifosi.

Si mosse per cercare della birra, che quel sole rendeva tutto troppo più nitido, anche la merda che era, lui, lì, in quel momento, per sempre.

Due

Olsen, per la prima volta, non si chiese nulla: sapeva esattamente come sarebbe andata a finire.

Esattamente come non aveva previsto.

Lavò i piatti ridendo e bestemmiando, si fece una doccia, poi uscì per andarsene a svenire ubriaco da qualche parte nella notte.

Trentuno

Olsen era lì che guardava la vetrina del negozio di animali. Cuccioli di ogni specie. Solo cuccioli. Piangevano, strillavano. Ogni cazzo di signora, ragazza, bambina o bambino che passava si fermava a emettere suoni inarticolati di godimento, vocine stupide e scenette patetiche. Il dolore della separazione, la richiesta disperata di cure materne, la merda vera data in pasto ai facili sentimenti. Giusto per guadagnare un tichettio di unghia laccata sul vetro, una smorfia di finta compassione e tenerezza, prima immergersi nei luccichii del centro e dimenticarsene completamente.

Olsen estrasse la bottiglia di birra dalla tasca della giacca e bevve. Gli venne l’idea di sgozzarli tutti, quei cuccioli del cazzo, e lasciarli lì dov’erano, volgari, crudeli nella loro morte.

Rise fino alle lacrime, mentre chi passava di lì si affrettava ad allontanarsi.